Teatro Principe

De Donato: C’è una relazione tra street art, rugby, Beethoven, libero arbitrio e pugilato. Le cose che bisogna ancora sapere sulla nobile arte sono nelle parole del pugile, che vuole tornare a essere un campione

Renato De Donato, già campione italiano dei superleggeri, dopo un periodo di crisi e rinascita torna sabato 14 maggio sul ring del Teatro Principe di Milano e “questa volta veramente,” come lo stesso pugile afferma con la sicurezza dei suoi 29 anni. A seguire l’evento sarà presente Rai Sport 1 che trasmetterà in diretta alle 22.45 la sfida tra Renato De Donato e Luciano Randazzo con il commento di Davide Novelli e mitico Nino Benvenuti.

Il sottoclou della serata è pirotecnico grazie a una serie di incontri fra grandi campioni emergenti sia di boxe sia di kickboxing. Una cornice adeguata per il fuoco d’artificio finale e la carica emotiva che promette di trasmettere un ring su cui danzeranno due pugili con storie diametralmente opposte: Luciano Randazzo alla ricerca di una consacrazione e del suo primo vero titolo e Renato De Donato, uno dei campioni italiani più completi, originali e “psyco”, come lui ama ironicamente dire di se stesso, che potrebbe tornare a essere campione.

Come si entra in un match di pugilato?
Bisogna conoscere bene i personaggi che stanno sul ring. Pure io se non li conosco mi annoio a morte. Se so con quale testa, passato, passione uno affronta il match mi emoziono ed entro completamente nel senso di ogni azione. Non bisogna fermarsi alle caratteristiche tecniche ma lavorare sull’essere profondo dei pugili e il senso che quell’incontro ha per loro.

Che tipo di personaggio è Luciano Randazzo, il tuo prossimo avversario?
L’ho visto un paio di volte dal vivo oltre a una marea di suoi filmati. Personalmente non so se è uno sbruffone o un ragazzo educato. Dalle interviste mi sembra a posto, magari un po’ timido. Un atteggiamento comprensibile visto che il 14 maggio sarà la sua prima chance iridata. Di certo tirerà fuori tutto il carattere del mondo per vincere. Ricordo bene com’è stata la mia prima possibilità di vincere il titolo. Lui vuole essere una sorpresa e si attende di sorprendermi.

Per entrare in un match più che le considerazioni di carattere tecnico valgono quelle a livello umano?
Questo incontro per me rappresenta tantissimo. Non tutti lo sanno ma ho conquistato il titolo in Italia per tre volte e poi, con grande sofferenza emotiva, l’ho perso con Scarpa che poi si è dimostrato boxer di grande valore.

Ancora ti brucia quella sconfitta?
Ho perso e per me quella è stata veramente una sconfitta. Ero in ascesa e Scarpa mi ha fatto abbassare le ali. Forse stavo diventando un po’ sbruffoncello e troppo sicuro di me. Mi ha rimesso in riga. Poi ho perfino cambiato categoria cercando scuse nel problema del peso facendo un ulteriore errore da cui è derivata un’altra batosta.

Per te questo titolo rappresenta una rinascita?
Mi sono messo di nuovo sotto con il lavoro, ho aperto la mia palestra l’Heracles Gymnasium e sono rinato prima di tutto come uomo. Non avevo più nulla e ora ricomincio. Questa volta devo combattere sia per me stesso sia per i miei pugili che stanno crescendo. Non combatto contro Randazzo ma contro me stesso. Per vivere devi farti il mazzo e dopo tanti anni sono riuscito a riorganizzarmi la vita. Sono tornato a fare il pugile come quando avevo 17 anni. Ogni giorno vado in palestra per migliorare e questo mi dà gioia.

Il pugilato non ti piaceva più?
Queste sono le cose che la gente deve comprendere. Renato De Donato torna e questa volta veramente. Mi sento tornato bambino quando faccio pugilato. Mi diverto di brutto. Ho una passione che non conoscevo più. Mi ha aiutato molto la psicologa. Grazie a lei sono tornato anche a scrivere.

A cosa ti serve scrivere?
All’inizio volevo capire veramente i motivi che mi spingono a fare il pugile. E poi perché volevo smettere di mentirmi.

Cos’è la boxe?
Ho una psicologa dello sport, Alessandra Stella, che mi segue. Scrivo per capire meglio perché lo faccio. C’è di mezzo la passione, qualcosa da esprimere anche se ancora non ho veramente capito cos’è, un bisogno. Forse è un po’ di egocentrismo. A noi pugili piace vincere e compiere imprese eroiche, stare al centro dell’attenzione, al centro del ring. La boxe crea dipendenza e i pugili non si fermano mai finché non si fanno male. Però sarebbe riduttivo dire che è solo questo altrimenti con ci sacrificheremmo così tanto per un paio di applausi. Non lo fai solo per soldi o per diventare qualcuno. Si fa per qualcosa che è dentro di noi.

Chi viene a vedere la boxe cosa cerca?
Si cibano dell’emotività che viene trasmessa dal ring. È come se combattessero anche loro. Vivono l’attimo che non potrebbero afferrare perché non sono pugili o non hanno la testa per farlo. Vedere un match è come leggere. Puoi farlo in maniera superficiale o scavando e immedesimandoti fino a entrare nel romanzo. Se entri nel match combatti ed è un grande sfogo per chi guarda.

Il tuo musicista preferito resta quello che tu chiami il Ludovico, Ludwig Van Beethoven?
Ultimamente mi sta appassionando Aleksandr Nikolaevič Skrjabin, non l’ho ancora suonato perché è molto complicato ma prima o poi mi ci devo perdere.

Hai ambizioni anche nell’esecuzione classica?
Suono prevalentemente gli adagi altrimenti devo fare i conti con l’apertura del pollice sinistro che mi costringe a fare un sacco di salti perché prendo un’ottava scarsa. Sergej Vasil’evič Rachmaninov non lo suono.

Da quando sei diventato anche un pianista?
La musica è una mia passione, ero chitarrista classico e da bambino ho studiato tanto. Poi ho interrotto e da due anni ho cominciato con il pianoforte.

In questi ultimi due anni di ripresa conta molto anche la tua nuova attività?
Sì. La mia palestra l’Heracles Gymnasium è importante e molto particolare. Gli eventi culturali si uniscono a quelli sportivi anche nella disposizione dello spazio. C’è un pianoforte, una libreria, un salotto, la zona pugilato. Non c’è divisione tra teatro, musica classica, jazz e boxe.

Che tipo di affinità c’è tra pugilato e musica?
Musica e boxe fanno interagire le persone. Anche il pugilato è considerato arte ma a livello meccanico c’è poco di artistico: sono due che si prendono a pugni. È il movimento che trasmette e fa appassionare il tifoso, non è tanto il legnarsi ma quello che noi boxando riusciamo a trasmettere. Lo stesso fa la musica. Il pianoforte è un tasto però va suonato in un certo modo, con una certa pressione. Certi grandi pianisti fanno delle espressioni con la faccia e recitano con il corpo quando suonano per creare la nota come vogliono. C’è il pugile picchiatore che trasmette irruenza, quello tecnico come me che trasmette più eleganza però i colpi sono quelli è il come ci muoviamo che trasmette. Per questa affinità tra musica e pugilato ho chiamato la mia palestra Gymnasium.

Perché portare la musica classica fuori dal suo ambiente convenzionale?
Vai in un teatro o in un auditorium raccogli emozioni ma entri da solo ed esci da solo non hai la possibilità di interagire con gli altri e creare socialità. Credo sia una funzione importante di responsabilità sociale all’interno di un quartiere come il mio in via Padova a Milano.
Nelle palestre c’è molta più interazione perché i sacrifici, le fatiche e gli obbiettivi ti fanno interagire con gli altri, ma rimane basso il livello culturale. Ho voluto creare un luogo dove mettere insieme queste cose per proporre una situazione culturale da portare alla gente.

Chi viene al Gymnasium finisce per apprezzare la musica classica?
All’auditorium le stesse persone non ce le avresti mai portate. Portare l’arte alla gente e non la gente all’arte è lo stesso concetto della street art. Così si alza il livello culturale delle palestre.

Cosa intendi per responsabilità sociale?
I più giovani, a partire dai 14 anni, sono più propensi oggi con i social network a raccontare le proprie emozioni. Noi non lo facevamo. Almeno dove sono cresciuto io se dicevo “sono triste oggi” mi prendevo gli schiaffi. Era considerata una cosa poco macho. I ragazzini oggi si esprimono di più ma in realtà sono parole al vento, poi quando ti vedono in faccia si accorgono di non avere creato nulla, nessun legame. I quartieri rischiano di svuotarsi e la gente non si conosce più come nel mito della vecchia Milano in cui ci si conosceva tutti in strada. Questa realtà va ricreata. Ormai Milano è piena di posti di aggregazione dove si entra, si spende un sacco, bevi ed esci. Ma veri posti dove la gente stia bene con un’offerta polivalente ce ne sono pochi.

La musica aiuta lo sport?
I miei atleti del Gymnasium a volte non hanno voglia di allenarsi ma vengono lo stesso per restare insieme. È un po’ come il modello della clubhouse nel rugby. Sono al CUS Milano rugby dove faccio il preparatore atletico del settore giovanile da otto anni e mi sono ispirato a questo modello. Nella clubhouse gli atleti si ritrovano, certo loro sbevazzando birra da tutte le parti, però ci sono le famiglie e i bambini crescono guardando i più grandi.

Quando entrerai sul ring per giocarti il titolo che musica hai scelto?
Devo parlare con il dj. Voglio il Dies Irae di Verdi. Certo io sono un po’ psyco. Ci sono i rugbisti che vengono da me a pompare che ogni tanto mi tirano le scarpe per la musica che metto.

So che oltre alla scrittura e alla musica hai la passione per la filosofia…
Mi affascina il dibattito sul concetto di senso del dovere e forza di volontà

Il pensiero non rischia di entrare in contrasto con la spontaneità necessaria all’atto sportivo o riesci a fondere istinto e ragionamento sul ring?
Lo stato di flow, lo stato di coscienza in cui la persona è completamente immersa in un’attività è fondamentale. Per me è uno stato che sta tra la noia e l’eccitazione. Troppa eccitazione crea tensione mentre troppa noia ti manda sotto tono. Nello stato di flow il corpo pensa per te. Spesso finisci il match che neanche ricordi quello che hai fatto. Si cerca sempre di arrivare a quello.

Bisogna pensare prima e non sul ring perché ti dà consapevolezza di quello che porti nel combattimento?
Sul ring tutti portano il sinistro e il destro, l’uno e il due, ma quello che vince è il primo che lo porta e ci vuole la testa, sicurezza e nessuna paura. Se sai chi stai portando sul ring vinci. Pensare prima per conoscersi è fondamentale. Sul ring porti la consapevolezza del pugile che sei e quindi di quello che puoi fare.

Decide la testa o il muscolo?
Questa è una questione di libero arbitrio. Quando mi chiedono come faccio a schivare certi colpi sarei pronto a giurare che non sono stato io. Il corpo si è mosso per evitarli e sopravvivere.
Nella musica spesso suono tutto a memoria e le dita vanno da sole, sanno dove devono andare.
Il corpo lo addestri e poi lavora da sé. Gli spartiti li studio e poi li lancio via con il rischio che se esci dal flow poi non ti ricordi più nulla.

Che senso ha la sconfitta?
Dipende da come si perde. Io ho perso tre incontri e quelli in cui sento di essere stato sconfitto per avere commesso errori veramente miei sono stati due: Caccia e Scarpa. Esposito mi ha battuto ma ero all’inizio. Con Scarpa ero fuori di testa, lui è stato bravissimo a rimanere sulla sua tattica.
Con Caccia avevo la testa completamente altrove. Se il tuo avversario è bravo e se lo merita non ti ferisce. Ti ferisce quando tu sbagli e hai lasciato le cose al caso, hai sottovalutato il match.

L’importante è partecipare?
Il pugilato da questo punto di vista è antisportivo al massimo. Chi perde esce dei giochi e l’importante è partecipare è una cazzata. Se perdi rimane segnato come un bollo di infamia. Non è come nel calcio o nel rugby.

Chi ci sarà al tuo angolo?
Al mio angolo ci sarà Riccardo Pintaudi, protagonista di uno dei più grandi match di pugilato contro Totò Moscatiello. È il mio socio nella palestra (insieme a Pablo Perata, NdR). Lui è il numero uno come insegnante e il settore pugilistico è il suo. Non potevo chiedere di meglio. È proprio un maestro vecchia scuola che ci mette passione, segue i ragazzi. Poi c’è Franco Cherchi. Non conoscevo la famiglia Cherchi e ora mi sento veramente parte di una squadra. Ti seguono con il cuore e la mente.

E i tuoi tifosi?
Attiro molta gente della mia zona e devo dire con gratitudine che mi seguono in tanti. Nel mio percorso di crescita ho frequentato sia ambienti da musica classica sia ambienti di tutt’altro gusto musicale. Ai miei incontri ogni volta è una grande rimpatriata tra amici, da quelli di Segrate dove sono nato, a quelli del liceo artistico in via Prinetti. Ho un tifo molto vivace e musicale che si fa sentire. Fai conto che ho 10 fratelli e ognuno ha minimo tre amici e ogni amico altri amici, così essere in tanti è facile.

Fonte: GQ Italia – 13.5.16

De Donato e la difficile arte della rinascita